venerdì 15 giugno 2007

La romanita' di Joseph Ratzinger


COSÌ RATZINGER SI FECE ROMANO

Il rapporto di una città col suo cittadino bavarese

Questa presentazione del libro in onore del card. Ratzinger, edito dalle Edizioni San Paolo e dovuto all’impegno di don Tarzia e di mons. Clemens, si situa in questa chiesa di Santa Maria in Trastevere.
Non è la scelta solo di una basilica bella e accogliente: a Roma – questo almeno non manca – ci sono tante sale. Non che si tratti di un atto liturgico, tuttavia vuole essere un “atto romano”, nella Chiesa romana.
Perché un “atto romano”?
Un piccolo, ma significativo ricordo, lega il cardinale a questa chiesa: quello di una celebrazione comune tra episcopati tedesco e polacco per ricordare i vent’anni – si era nel 1985 – dello scambio di perdono tra vescovi polacchi e tedeschi. La basilica resta legata alla Chiesa polacca, non solo perché qui è sepolto il polacco cardinale Osio, uno dei quattro moderatori del Concilio di Trento, titolare della basilica e grande difensore del primato, ma anche per il fatto che i suoi due ultimi primati, il cardinale Wyszynski e il cardinale Glemp ne sono stati titolari, sentendosi molto a casa e seguendo, soprattutto il primo anche per uno statuto giuridico diverso da quello attuale, le vicende della basilica.
Sembrano storie di un tempo lontano, ma quella riconciliazione del 1965 (ricordata qui nel 1985) suscitò un vero terremoto a Varsavia. Era un segnale di superamento di quel dopoguerra, mai finito, in cui l’Europa è vissuta fino al 1989. Era uno dei ponti che la Chiesa costruiva in un’Europa divisa e che tale sembrava destinata a restare ancora per molto. L’altro, sicuramente maggiore, era il Concilio che rappresenta anche un grande avvenimento paneuropeo, tanto da generare l’organizzazione unitaria che raccoglie le conferenze nazionali europee di cui il cardinale Etchegaray è l’iniziatore.
Perché un atto romano?
La storia del cardinale Ratzinger è quella di un tedesco, che approda a Roma a un certo punto della sua vicenda personale.
Con freddezza sociologica si potrebbe vedere in questo fatto il frutto del processo di internazionalizzazione della Curia voluto da Paolo VI.
Niente di più. Ma, in questi anni, si ha la tendenza a considerare la presenza a Roma di ecclesiastici stranieri come se la Santa Sede fosse divenuta una specie di organizzazione internazionale, magari con più storia e spessore, accanto a quella della Fao, allocata in un palazzo non proprio storico davanti allo storico colle del Celio
e alla chiesa di San Gregorio. Roma sarebbe come Ginevra, New York, Parigi… e tante altre città sedi di organizzazioni internazionali, che attraggono, per esigenze di lavoro e di rappresentatività, personale straniero da tutti gli angoli del mondo. In questa prospettiva si può vivere da stranieri per una vita intera.
La situazione per chi serve la Chiesa universale e il ministero del Papa a Roma è molto differente. Non si arriva stranieri o totalmente stranieri, ma non lo si resta nemmeno. C’è un’incorporazione nella Chiesa romana, quella che oggi riconosciamo
qui in questa chiesa trasteverina.
Per questo ho detto che si tratta di un atto romano. Il cardinale non è uno di quei vescovi o sacerdoti che hanno fatto i loro studi
a Roma e si sono familiarizzati in giovinezza con questa città. Non ha una giovinezza romana, ma bavarese, come rileva suo fratello nell’affettuoso e rispettoso saggio contenuto nel libro che oggi presentiamo.
Il cardinale ha conosciuto Roma, non presto, a 35 anni, nel 1962. La sua formazione è nell’università tedesca (su questo si trovano molti interessanti spunti in questo libro). Ma il cardinale non si è sentito straniero a Roma, come disse qualche anno fa in un’inedita conferenza: “… non mi sono affatto sentito qui come straniero, perché questa città con la sua storia e con il suo presente era stata sin da principio una parte essenziale del mondo, nel quale io ero cresciuto, avevo avuto la mia formazione e infine iniziato il mio cammino vocazionale.”
Roma sta dentro a un cattolico e a un uomo di cultura occidentale. Un fine conoscitore di Roma, lo storico francese, Philippe Boutry, ha scritto parlando della sua esperienza di straniero nella città: “La scoperta iniziale e fondamentale dello straniero a Roma mi sembra essere tuttavia quella dell’universalità di Roma: universalità della Chiesa e del Papato, del clero,dei religiosi e dei seminaristi di tutte le nazioni, delle lingue sentite e dei costumi; universalità della liturgia, dell’arte e della simbolica cattolica; appartenenza delle chiese e dei monumenti – anche non cristiani – della città alla storia universale dell’umanità…”.
Nell’impatto con Roma c’è la sensazione
o la coscienza di non essere straniero a Roma: “Roma è forse l’unica città del mondo che procura al suo visitatore quest’impressione di familiarità spontanea, di déjà vu, cioè di comunità esistenziale e di comunione culturale, se non religiosa. E’ forse per questa ragione che il viaggio a Roma sia spesso un’esperienza indimenticabile: perché fa riemergere in una città fino ad allora sconosciuta dei tratti individuali, culturali o spirituali profondi…”.
Il servizio alla Chiesa universale da Roma è differente dal lavoro in una grande organizzazione internazionale. Ciò è dovuto, così mi pare, in gran parte alla specificità di questo servizio, ma anche alla qualità stessa della città. Per questo ritrovarsi oggi con il cardinale Ratzinger ci aiuta a riflettere su questa caratteristica di Roma attraverso l’esistenza di un uomo che già ha vissuto sedici anni del suo servizio alla Chiesa da Roma.
Roma è molto cambiata nel Novecento.
Si è provincializzata? Il grande studioso protestante tedesco, per nulla simpatizzante con il governo temporale dei Papi, Mommsen, chiedeva però preoccupato ai nuovi dirigenti italiani dopo il 1870: “Ma che cosa intendete fare di Roma? Questo ci inquieta tutti: a Roma non si sta senza avere propositi cosmopoliti”. Il problema dei “propositi cosmopoliti” è una questione che non si può lasciar cadere quando si parla di Roma.
La Roma del Novecento ha profondamente cambiato i connotati tradizionali, mutando anche la continuità della popolazione nei secoli con l’arrivo di italiani da tutte le parti della penisola. Roma era stata, per molti secoli, città d’arte, città laboratorio
anche dal punto di vista urbanistico.
Dopo la Rivoluzione francese viene considerata però da parte dell’opinione pubblica internazionale come un relitto del passato. Roma capitale, durante il Novecento, ha conosciuto un processo di cambiamento profondo nella sua popolazione e nei suoi costumi. E’ divenuta una città sintesi tra gente del nord e del sud d’Italia, mentre i romani sono quasi scomparsi. In cento anni Roma è divenuta molto diversa da quello che era: è un caso un po’ unico tra le grandi città italiane che hanno conservato la loro identità, nonostante le forti immigrazioni. Roma è forse la più italiana tra le città italiane. Ma i propositi cosmopoliti a cui Mommsen teneva?
Nella prima metà del nostro Novecento c’è stato un dibattito tra cattolici e fascisti sull’eredità della tradizione imperiale e romana, a partire dalle famose affermazioni di Mussolini per cui il cristianesimo, una setta palestinese, era divenuto veramente cattolico solo facendosi romano. Era il nuovo impero italiano fascista o la Chiesa cattolica l’erede della civiltà romana?
L’affermazione di Mussolini suscitò una pronta risposta da parte di Pio XI e della cultura cattolica. Il cardinale Montini, ancora nel 1962, in un discorso su Roma, tenuto in Campidoglio all’inizio del Concilio, ribadiva: “la Chiesa di Cristo, collocandosi a Roma, non diventa cattolica… ma si ritrova quella che essa già è per nativa costituzione, cioè cattolica. La Pentecoste precede…”. Il rapporto tra la romanità e l’universalità della Chiesa di Roma resta un campo di studi da affrontare, al di là dei troppi luoghi comuni. Uno studioso francese molto acuto, non credente, Alphonse Dupront, dopo aver seguito l’Anno Santo del 1975, scriveva arditamente: “La romanità ha liberato la Chiesa”. L’aveva liberata dai poteri temporali e dai nazionalismi…
La vicenda delle due guerre mondiali è un duro confronto tra la Roma universale dei Papi e lo scatenarsi delle passioni nazionali che coinvolgono talvolta anche i cattolici.
Nella seconda metà del nostro secolo, i dibattiti attorno all’idea di Roma e alla sua eredità sono scemati, per timore di retoriche che richiamassero il recente passato.
L’approccio a Roma è stato scarico di idealità e pragmatico. Non è stato un bene. Forse il Vaticano II, nell’orizzonte contemporaneo
ha segnato una ripresa della riflessione su Roma, che ha preso molte strade.
Diceva il cardinale Montini all’inizio del Vaticano II: “Il Concilio porta a Roma il mondo come a casa sua”. Dal Concilio si sono sviluppate alcune importanti dimensioni di Roma. Nessuno può negare che la dimensione della Chiesa locale ha assunto nuovo spessore e vigore, anche per il grande impulso in questo senso da parte di Paolo VI e di Giovanni Paolo II. La città ha vissuto, tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta,
una crisi, dovuta alla crescita urbana
che si è fermata, al ’68, alle vicissitudini politiche,
al terrorismo. Ma ora mi sembra che Roma sia tornata e torni a interrogarsi sulla sua identità, soprattutto alle soglie del Terzo Millennio, che la vedrà protagonista in maniera particolare del Giubileo.
Dopo l’89, con la crisi dell’internazionalismo marxista, con lo sviluppo delle identità nazionali e dei nazionalismi, si è aperta una nuova stagione per Roma. La mia sensazione è che si ricomincia a guardare a Roma, come riferimento per un rapporto diverso tra le genti. Ci si trova in una stagione in cui i due imperi, quello dell’Est e quello dell’Ovest, sono entrati in crisi: il primo per il suo esaurimento interno dando luogo a tanti segmenti nazionali e nazionalistici, mentre il secondo non può garantire una funzione imperiale senza limiti. Il processo di integrazione europea pone il
problema di un cuore e di un centro. Il sogno utopico dell’internazionalismo comunista è crollato; gli imperi sono finiti. Una situazione analoga al crollo del “sogno utopico di un regno ideale” dell’impero romano?
Il cardinale Ratzinger ha scritto che a questo sogno “si sostituisce ora la realtà di una comunità di convinzioni e della comune volontà, che nella molteplicità degli Stati, dei popoli e delle culture forma un’unica gens, un popolo, la grande rete della
communio dell’unica fede”.
Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad una rinascita di questo riferimento a Roma, come un bisogno di patria communis, connesso anche alla storia del ministero di Pietro nella vicenda del post Concilio.
Dagli anni Sessanta, Roma è cresciuta come riferimento: si viene di più a Roma, non solo da parte di vescovi e fedeli cattolici, ma anche da parte di cristiani di tutto il mondo e talvolta di non cristiani.
Roma è cresciuta, anche per le nuove occasioni maturate e per la facilità a viaggiare, come un luogo alto dell’incontro tra genti diverse all’insegna della fede. E’ un movimento reale, che va ben oltre le categorie giuridico-sociologiche del centralismo e della decentralizzazione che forse poco comprendono delle dinamiche del
cristianesimo contemporaneo.
Il cardinale Ratzinger, che ha toccato tante volte il tema della fratellanza tra i popoli (bellissimo il saggio di Arias Reyero su
“Fraternità Cristiana”, un libro che per me è stato importante per la lettura della parabola del giudizio nel Vangelo di Matteo e per cogliere il posto dei poveri nella vita cristiana), è stato molto sensibile a questa idea di Roma, connessa intimamente al ministero
del successore di Pietro. Ha scritto: “Non nella separazione e nella contrapposizione, ma solo nella communio si realizza l’identità di ciascuno. A questo genere di unità cerca di rendere servizio un cristiano, che non romano, come io sono, in Roma lavora
e si sente anche in profonda consonanza con ciò che ha significato per tutti i popoli quella cittadinanza romana…”
Questa città non si riduce a una prospettiva nazionale, anche se Roma non è una città cosmopolita. Non è mai mancata la presenza di una comunità ebraica, allargatasi nei tempi delle persecuzioni spagnole.
Roma è una città italiana e poco altro; ma è anche una città aperta all’altro da un punto di vista nazionale. L’altro è a casa sua qui
a Roma. Lo si è visto con l’elezione di Giovanni Paolo II, quando il Papa neoeletto mostrava preoccupazione che i romani sentissero
disagio per un Papa non italiano: ma non ci sono stati nemmeno sintomi di questo atteggiamento, perché era naturale per i romani che la dimensione del servizio della Santa Sede non appartenesse loro nazionalmente, anche se era a Roma e era accanto a loro.
Il mondo non è a Roma per la presenza di minoranze nazionali: Roma non è una cosmopoli sul modello della seconda Roma, Costantinopoli-Istanbul fino alla Prima guerra mondiale. Ma a Roma il mondo è presente attraverso personalità e gruppi non italiani che sono qui per servizio alla Chiesa, ma che fanno parte dell’orizzonte umano della città. La presenza a Roma di gruppi e istituzioni nazionali corrisponde anche alla logica di far sentire a Roma ciascuno come a casa sua. Roma è tanto diversa dalle megalopoli, da New York: lì si può dire che lo straniero non si sente estraneo perché trova i suoi compatrioti. La non estraneità da Roma per il non italiano avviene perché si conosce Roma prima di venirci, perché si opera a Roma con un motivo che i romani non considerano estraneo, perché Roma è un tessuto nazionale aperto all’universale. Roma non riesce a identificarsi solo con un destino nazionale: c’è qualcosa che lo trascende, seppure non nega questo destino nazionale.
Roma non è una città sacra, come la concepiscono le altre due religioni monoteistiche.
Non è una città sacra fuori dal tempo.
Ma Roma non si presenta come una città imperiale, che abbia ambizioni onnivore o egemoniche. Roma non sarà mai Parigi, Londra o anche Berlino. In questo senso parecchie letture del ruolo di Roma sono venate da un “complesso antiromano”, che non corrisponde alla realtà stessa della città e delle dinamiche ecclesiali. Una certa
idea di Roma, come centro di un imperialismo religioso, è tanto frutto di questo complesso antiromano, risorgente nella storia.
Roma è una dimensione modesta, ma non banale, anzi nobile e moderna, ma – lo ripeto – modesta.
Nella sua intervista con Messori, alla domanda dell’intervistatore che chiede come vedrebbe il centro della Chiesa in Germania, il cardinale risponde: “Che guaio! … Avremmo una Chiesa troppo organizzata.
Pensi che dal mio solo Arcivescovado dipendevano 400 tra funzionari e impiegati…
Sì, meglio lo spirito italiano che, non organizzando troppo, lascia spazio a quelle personalità individuali, a quelle iniziative singolari, a quelle idee originali che… sono indispensabili alla Chiesa. I santi, tutti, sono stati uomini di fantasia, non funzionari di apparato…
Mi piace poi quell’originalità latina che lascia sempre spazio alla persona concreta nella pur necessaria intelaiatura di leggi e codici”.
Ma il sistema romano è spesso lento e centralistico? “Mi lasci
dire – continua il cardinale – che la proverbiale lentezza vaticana
non ha soltanto aspetti negativi. E’ un’altra delle cose che ho capito soltanto a Roma; saper soprassedere, come dite voi italiani, può rivelarsi positivo… C’è anche qui un’antica saggezza latina: le reazioni troppo rapide non sempre sono auspicabili, una non eccessiva prontezza di riflessi finisce talvolta per rispettare meglio le persone”.
Ma non vorrei essere lungo. La Santa Sede non è l’Onu cattolico a Roma o il centro di una multinazionale della religione. Sono categorie fuorvianti. Il mondo della Chiesa fa parte integrante della realtà di Roma.
Vorrei sottolineare il carattere romano, che vive nella Santa Sede ma anche nella città.
Viene da una storia lunga in cui da Roma si è mosso un interesse universalistico al mondo, senza il sussidio di una forza materiale,
di potere politico: ma solo con la fede, la cultura, la legge, la convinzione… C’è nel governo vaticano un artigianato dell’universale.
Roma non ha rinunciato a essere universale, anche se non ha più avuto i mezzi imperiali e imperialistici per esserlo.
E’ in questa apparente contraddizione che si forgia il carattere di Roma, nel quadro di quell’incontro tra la Chiesa e la città, tra il Papa e i romani, senza confusione e senza separazione, come recita il dogma di Calcedonia. Questo carattere si è forgiato nella capacità di rinnovarsi nella storia del mondo. E’ quanto diceva Rutilio Namaziano: “Ordo renascendi est crescere posse malis” (all’essenza del rinnovamento appartiene la capacità di crescere attraverso i mali). E’ una citazione che rubo a una conferenza del cardinale, a cui faccio tanti auguri, dicendo come sia una di quelle personalità che hanno contribuito a tenere alto questa carattere romano-universale della Chiesa e della città. Lo faccio da romano di nascita a un altro romano.

Andrea Riccardi

Presentazione del libro “Alla Scuola della Verità. I settanta anni di Joseph Ratzinger”,
Santa Maria in Trastevere, 22 dicembre 1997.

Il Foglio, aprile 2005

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