martedì 17 giugno 2008
La storia di Don Antonio Tedesco che il Papa chiama Antonio Bavarese
Porta dalla Germania gli amici del Papa
di Paolo Mosca
Bravo, Antonio Bavarese, gli dice scherzosamente Benedetto XVI. Lui, il cui vero nome è Antonio Tedesco, sorride soddisfatto dell’affettuoso gioco di parole del Papa.
D’altronde don Antonio, da 40 anni a Roma, non finisce mai di stupire: con la sua carica umana, riesce a portare dalla Germania migliaia di pellegrini. Oggi è presidente del Centro Pastorale pellegrini di lingua tedesca. La sede è in via della Conciliazione, al pianterreno di Palazzo Cesi. Un gruppo di ragazzi al computer e lui: don Antonio da Giffoni Valle Piana, in provincia di Salerno. “Nasco nel ’40, nel quartiere più povero di un piccolo paese con un grande cuore: non è un caso che oggi là si organizzi il Festival del Cinema per ragazzi e una mostra di presepi da tutto il mondo. Come mio padre, che emigrò in Svizzera per fare il sarto, anch’io mi sentivo un pellegrino con la valigia. Senza sapere una parola di tedesco, dopo il seminario a Palermo, ho raggiunto papà in Svizzera. Studio teologia a Coira, e dico la mia prima messa a Zurigo, dove c’era una piccola comunità di cattolici. Tu sei ‘pazzo’, mi diceva papà. Da pathos, gli rispondevo io, che vuol dire passione. Volevo aiutare i nostri emigranti a non perdere la fede cattolica: organizzavo per loro tornei di calcio, tavole rotonde, con lavoratori spagnoli, greci, di tutto il mondo”. E mamma Alfonsina cosa pensava di padre e figlio emigranti? “Lei ci dava la carica.
Il primo agosto compie 90 anni, vive a Zurigo con mia sorella, e mi dà ancora lezioni di fede”. A Roma come ci arriva? “Col permesso dei vescovi di Zurigo e Salerno: ci vai un anno a spese tue, mi dissero. E io, testone, trovai una stanza al Centro Teutonico del Vaticano, diplomandomi all’Istituto di Scienze Sociali dall’Università Pontificia. Poi viceparroco a Santo Spirito in Sassia, e anche insegnante di religione ai licei Dante Alighieri e Mamiani. Era il ’68: tempi difficili”. Perché la chiamavano “il terrore del Vaticano”?
Perché con la mia Lambretta 150 andavo al massimo per i Giardini Vaticani. Ma poi cambiarono idea, quando cominciai a portare migliaia di pellegrini in piazza San Pietro. Su 1000, però, almeno 250 erano handicappati in carrozzella. Ho portato anche centinaia di ciechi: con i miei collaboratori loro vedevano le statue, toccandole, sfiorandole. Ascoltavano cori di musica sacra. Quindi ho portato migliaia di coppie di sposi: o per festeggiare gli anniversari di matrimonio, o appena dopo il sì. Loro si rivestivano da sposi, e dopo l’udienza generale, tutti ai castelli romani, alla villa del cardinale Colonna: e la sera a Trastevere, per una cena con gli stornelli. Per ogni coppia c’era una pergamena di auguri firmata dal Pontefice”.
Dal ’95 lei organizza la festa della Pentecoste al Pantheon. “Sì, dal foro della cupola scende una pioggia di petali di rose rosse che arrivano da Giffoni. Ogni petalo è una fiammella dello Spirito Santo”.
Recentemente è stato molto malato. “Una forma terribile di diabete. Lo stress, il mangiare disordinato. Da 96 chili sono sceso a 80. Credo che le preghiere di Benedetto XVI mi abbiano fatto meglio delle medicine. Nella convalescenza, ho scritto un libro per bambini sul Papa. ‘Hai fatto bene, in Paradiso saremo tutti bambini di fronte a Dio’, mi ha detto Ratzinger”.
© Copyright Il Messaggero, 15 giugno 2008