giovedì 14 giugno 2007

Il vento di Dio


TESTIMONIANZE Incontro con lo storico di Comunione e Liberazione mentre esce il nuovo libro
«Un errore negare l'autopsia su Papa Luciani»


Padre Camisasca racconta i retroscena di tre pontificati

di ALDO CAZZULLO

Spesso si è trovato da solo con Wojtyla e Giussani. Altre volte il cardinale Ratzinger veniva a cena da lui nell'appartamento romano che divideva con un altro sacerdote cresciuto in Cl, Angelo Scola. Massimo Camisasca, storico di Comunione e Liberazione, di cui è stato per quindici anni l'ambasciatore in Vaticano, pubblica Il vento di Dio (Piemme, pagine 128, e 10), in cui racconta la propria storia e quella della Fraternità San Carlo, la comunità di sacerdoti da lui fondata e presente oggi in quindici paesi, dal Kenya alla Siberia.

Don Camisasca, lei arrivò a Roma nei giorni della fine di Paolo VI. E ne scrive come di un grande Papa sconfitto.

«Paolo VI era un uomo straordinario. Capace, lui così timido e riservato, di gesti di grande affetto: come quando incontrò nelle logge papali Dina Bellotti, la pittrice, che gli disse di essere appena rimasta vedova. Lui chiese al suo segretario, don Macchi: "Abbiamo il suo numero?".

E poi, rivolto a lei: "D'ora in avanti non sarà più sola".

«Con Jean Guitton si erano conosciuti un 8 dicembre e si giurarono che, in qualsiasi parte del mondo fossero stati, ogni 8 dicembre si sarebbero rivisti. I Dialoghi con Paolo VI di Guitton non sono un vero libro-intervista, ma la summa di un incontro durato tutta la vita. Montini lo ringraziò con un biglietto in latino: "Nimis bene de me scripsisti", hai scritto troppo bene di me.
«Quanto agli scritti di Montini, il suo stile letterario mi affascina. Sono un suo accanito lettore».

Perché Papa sconfitto, allora?

«Perché fu tradito dai suoi alleati, che deformarono il suo disegno di rinnovamento della Chiesa portandolo ben oltre le intenzioni originarie. Paolo VI sente su di sé il problema della modernità, ne è attraversato. Wojtyla lo scavalca, si sporge oltre. Giussani era un po' come lui, anche se lo univa a Paolo VI un'idea manzoniana del cattolicesimo, per cui la fede si manifesta attraverso le opere».

Tra Montini e Wojtyla c'è Giovanni Paolo I. Che idea si è fatto della sua fine?

«Arrivo in stazione da Milano e mi avvertono che il Papa è morto. Mi precipito in Vaticano. La nipote di Luciani, Lina, figlia di sua sorella, mi accompagna da lui. Ebbi l'impressione di un infarto devastante; i tratti erano quasi irriconoscibili, il volto blu. Fu un errore negare l'autopsia e non raccontare la verità sulle circostanze del ritrovamento. Però l'ipotesi dell'avvelenamento è ridicola: è impossibile avvicinare il Papa in Vaticano con intenzioni malvagie, vigilato com'è dalle guardie svizzere».

È vero che Luciani voleva intervenire nello Ior e rimuovere Marcinkus?

«Innanzitutto voglio ricordare che il suo brevissimo pontificato creò un cambiamento di clima nella Chiesa, assolutamente imprevedibile: apparvero in lui, sul suo volto e nelle sue parole, la bellezza e la semplicità del Cristianesimo. Quanto a Marcinkus e allo Ior, penso di sì, che volesse mettere mano a delle riforme profonde. Ma è vero soprattutto che subì il Papato, lo avvertì come un macigno piombatogli addosso. Magee, il suo segretario in seconda, mi ha raccontato delle emicranie che lo inducevano a entrare nelle stanze dei segretari — cosa che Montini nella sua regalità non faceva mai — per chiedere un caffè. L'ultima sera si alzò da tavola per rispondere al telefono ed ebbe una conversazione concitata con il cardinal Colombo sulla scelta del nuovo patriarca di Venezia. Tornato a tavola, chiese ai commensali di recitare la preghiera per la buona morte».

Come mai il cardinale di Milano pensava di poter influenzare il Papa?

«Era stato uno dei più votati in conclave, secondo una voce cui non credo sarebbe stato addirittura eletto per poi rifiutare. Soprattutto, Luciani avvertiva la necessità di consultarsi con tutti. Mi hanno raccontato che, quando fu eletto, si presentò alla Curia dicendo: "Sono nelle vostre mani". Wojtyla, uscito dal conclave, indicò Dswisz, poco più di un ragazzo, dicendo a cardinali ottuagenari: "D'ora in avanti obbedite a lui". Per questo, all'uscita del suo primo incontro con lui, Giussani continuava a ripetere, entusiasta: "È un leone!". Aveva intuito che Giovanni Paolo II avrebbe ribaltato la situazione: da una Chiesa impaurita dalla modernità a una Chiesa che non ha più paura e ritorna più forte di prima sulla scena della storia».

Davvero Wojtyla pensava, come scrive Dsiwisz, che a tentare di ucciderlo fossero stati i sovietici?

«Certo. E non ne faceva mistero. Ricordo un incontro con Giussani, Scola e me, il 13 settembre 1985, il giorno prima del riconoscimento della Fraternità San Carlo. Wojtyla era convinto che l'attentato fosse stato organizzato oltre la cortina di ferro, da gente che sapeva come uccidere. "Russia e America sono entrambe pericolose; pericolosi sono capitalismo e marxismo, ma l'Urss è più pericolosa perché sorretta da un'ideologia, mentre il mondo capitalista è grossolano ed egoista"».

L'America sullo stesso piano della Russia?

«Già prima della caduta del Muro, Giovanni Paolo II avvertiva fortissima la preoccupazione per l'edonismo e il consumismo. Questo non gli impedì di avere un rapporto di sintonia e di simpatia con Reagan».

A quegli anni risale la sua consuetudine con Ratzinger.

«Due sere all'anno veniva a cena nella casa che dividevo vicino a Santa Maria Maggiore con Scola. Mangiava pochissimo, mentre Wojtyla prima dell'attentato era un mangiatore robusto. Aveva e ha il dono di esprimere in modo semplice verità profonde. Spesso Giussani si rivolgeva a lui per essere certo che l'audacia delle sue formulazioni non lo portasse al di fuori della tradizione della Chiesa. Ratzinger si fermava a meditare profondamente. Poi lo rassicurava, con la grazia e la sicurezza intellettuale che gli appartengono».

Qual era il rapporto tra Wojtyla e Ratzinger?

«Ratzinger era molto prezioso per Wojtyla, che sentiva di aver bisogno di un argine e di un riferimento. E il futuro Benedetto XVI non esitava a esercitare questa funzione con serietà e lealtà, quando lo riteneva necessario».

Il Corriere della sera, 13 marzo 2007

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